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La citazione iniziale
Il Grande No – dal diario liquido di… (nome censurato dall’acqua)
Quando mi dici No
quel No è buio che mi dai da bere
veleno dei colori e fiele dalla sabbia
Il Grande No mi consuma le tempie
mi mangia la bocca
mi ruba le mani
Mi canta bugie subdole come inni alla vita
Il Grande No mi trafigge le guance e uccide i miei figli diletti
I miracoli li ha mangiati lui, il Grande No
Divoratore di menti fanciulle e vive fortezze del libero pensiero
vaga folle come se prigioniero non fosse
come se galera all’animo non portasse
Occhi chiude al suo passaggio e baci amari sulla bocca dà a chi spera
Prologo bambino
Maggio 1988
Un cucchiaino, la fame che non c’è più, la bocca di un bambino. Come in una filastrocca sciagurata, sei mesi prima che questi tre elementi si combinassero nel più nefasto ordine possibile, Margherita Corroga guidava serena nel silenzio dell’abitacolo. Dopo avere servito alla sorella minore un pistolotto di cinque minuti su quanto sia inopportuno ricorrere al turpiloquio per dare enfasi a un concetto, teneva le mani sul volante interpretando come riflessivo il mutismo fraterno. Sguardo alle curve della panoramica costiera che da Cagliari porta a Villasimius, stava giusto pensando di essere riuscita, per la prima volta, a convincerla quando: “Marghe, ce la fai a superare questa fottuta Visa color diarrea di gatto?”
“Siamo in mezzo alle curve, Rissa, non ci posso fare niente. Devi aspettare che arriviamo al rettilineo dopo il ponte sul rigagnolo di Geremeas”.
“Non sopporto che mi chiami Rissa. Se lo sapesse mamma, convinta com’era che Clarissa fosse un nome elegante”.
“Tu, però, elegante non lo sei mai stata e Rissa è decisamente più adatto al tuo temperamento. Ma questo va così lento che sembra stia andando al suo funerale e voglia far tardi”.
“E poi non si vede sporgere nemmeno la testa dal sedile, deve esserci un nano alla guida”.
“Accidenti, non supera i 40 all’ora e, a parte la lentezza, il nano deve avere la sbronza di mezzodì. Meglio stargli lontano, quindi goditi il panorama e datti una calmata”.
Ma alle sorelle Corroga importava poco dello spettacolo allestito dalla primavera sulla litoranea, avevano fretta di arrivare a Solanas in tempo per il pranzo di famiglia e strafogarsi della famosa cordula coi piselli della vecchia zia Tatti. Di quella semovente lastra verdemare in fondo alla scarpata o delle morbide colline incendiate dai cespugli di euforbia che a maggio in Sardegna diventano palle di fulgida ruggine non si accorgevano nemmeno.
“Guarda che questo matto finisce fuori strada. Scommetto che si pianta in cunetta”.
“Ci siamo quasi, dopo questa curva se non arrivano auto in senso inverso dovrei riuscire a superare e voglio proprio vedere chi è alla guida”.
Dopo l’ultima ansa a gomito in vista del rettilineo per Baccu Mandara, Margherita Corroga scalò in terza, pigiò sull’acceleratore della sua vecchia Panda e si spostò nella corsia di sorpasso. Quando le due auto furono una a fianco all’altra, le sorelle si girarono verso la bradipa a quattro ruote
mentre un’identica sorpresa trasfigurava i loro volti di fraterna somiglianza.
“È una bambina!”
“Porca miseria ladra, avrà al massimo dieci anni. E al suo fianco ce n’è uno più piccolo”.
Ormai il sorpasso era finito, Clarissa si voltò sul sedile per guardarsi indietro mentre la sorella sbirciava dallo specchietto retrovisore.
“Ma dove starà andando questa bambina? Ecco perché guida peggio di te che non tocchi il volante da vent’anni”.
“Ti dirò che per essere così piccola non se la cava neanche tanto male”.
“Ma dai, Rissa, dobbiamo avvertire la polizia. Non credo proprio che abbia il permesso della mamma, potrebbe avere un incidente”.
“Invece magari ha le sue buone ragioni, povera stella. Forse sta fuggendo da genitori violenti e sta portando in salvo il fratellino”.
“Dici così solo perché hai fame e hai fretta di sederti a tavola”.
“Macché. È che io ho fiducia nell’infanzia e quella bambina ha un piglio così determinato nel guidare che fa quasi paura. Tu non l’hai vista bene. Non sai che luce ha negli occhi così aggrappata al volante”.
“Ma quale luce, quella probabilmente ha rubato la macchina della mamma e chissà dove va a schiantarsi se non interveniamo. Appena posso mi fermo e telefoniamo alla polizia”.
“Come ti pare”, rispose Clarissa senza spostare lo sguardo dalla Visa.
“Voglio proprio vedere come se la cava adesso con questo ciclista sulle curve”. Non fece in tempo a finire di sorpassare la bicicletta che: “Omioddio lo investe!”, urlò Clarissa portando una mano alla bocca. Margherita spostò lo specchietto retrovisore in tempo per vedere l’auto della bambina sbandare fra le anse della salita. Il ciclista frenò e si buttò in cunetta riuscendo a non cadere mentre lanciava insulti in tutti gli idiomi mondiali.
“E va bene, cerchiamo una cabina telefonica”, si convinse Rissa.
“Qui a Baccu Mandara non ce n’è”.
“Vai a Torre delle Stelle”.
“Sei matta! In quel labirinto di sterrati mi perdo prima di arrivare ai campi da tennis dove sono le uniche cabine del villaggio”.
“Allora accelera e cerchiamone un’altra su strada. E dai, schiaccia quel cacchio di pedale! Quei due si schiantano se non ci sbrighiamo”.
Mentre discutevano su dove potessero trovare la cabina telefonica più vicina, si allontanarono dalla bimba pilota ma dopo qualche chilometro videro che proprio all’incrocio per Solanas c’era una pattuglia della Stradale. I poliziotti furono informati del fatto che avevano superato una Visa color nocciola malamente guidata da una bambina. La Corroga maggiore fu pure in grado di dare il numero di targa che venne subito comunicato alla centrale dall’agente più giovane. La faccia che fece il poliziotto disse alle sorelle che la Polizia era già stata allertata e che le ricerche della piccola erano in corso.
“Sì, la fermiamo noi”, disse l’uomo mentre faceva segno al compagno di mettere l’auto di traverso rispetto alla carreggiata.
“Cazzo, un posto di blocco per fermare una bambina! Marghe guarda cos’hai combinato!”
Mentre la sorella cercava di articolare una risposta senza averne il fiato, il poliziotto giovane informò il collega che il padre della piccola sarebbe arrivato appena possibile e che stava sopraggiungendo una gazzella dei carabinieri da Villasimius. Le due donne si guardarono sempre più allarmate e proprio in quel momento la Visa fece la sua comparsa all’uscita dall’ultima curva prima dell’incrocio. L’auto rallentò fino a fermarsi singhiozzando. I due poliziotti si guardarono e prima che avessero deciso il da farsi le due portiere si aprirono. La bambina alla guida saltò fuori per prima, corse a prendere il più piccolo e si gettò con lui verso la campagna al lato della strada. Correvano saltando pietre e cespugli mentre i due agenti, come risvegliati da un letargo fuori stagione, si affrettarono ad andargli dietro.
“Aspetta, non possiamo lasciare la pattuglia incustodita. Vai tu che sei più veloce”, ordinò l’agente anziano.
“Bambini, fermi. Non correte che vi fate male. Sta arrivando il papà. Non vi vogliamo mica arrestare”, gridavano i due a turno senza riuscire a essere convincenti. Due minuti dopo i fuggiaschi furono raggiunti ma non fu affatto facile fermarli. Si divincolavano e cercavano di riprendere la corsa strillando. Il poliziotto giovane non sapeva come bloccarli senza fare loro del male. Alla fine decise di prendere in braccio il più piccolo ma dovette rimetterlo a terra perché i due non volevano separarsi, urlavano e cercarono addirittura di morderlo. Nel frattempo sopraggiunse la gazzella dei carabinieri con tre militari che dimostrarono subito di essere poco avvezzi al confronto con criminali infanti.
“Mica possiamo mettergli le manette”, gridò uno mentre cercava di bloccare la più grande.
Alla fine le loro manine furono separate, la bambina fu caricata nella gazzella mentre urlava il nome del più piccolo: “Gionata, Gionata!”, che invece fu preso in custodia dai due agenti della Stradale ancora scosso dai singhiozzi.
Due ore dopo, la cordula con i piselli era ancora intatta nei piatti, con disappunto della zia Tatti. L’immagine delle grosse mani poliziotte che separano una per una le dita bambine, perseguitò per anni Margherita Corroga che nei giorni successivi cercò nel quotidiano locale notizia dei due piccoli fuggitivi finché, fra le cronache cagliaritane, trovò ciò che cercava. L’articolo parlava di una bambina di undici anni, nome di fantasia Lucia: aveva rapito il piccolo che era stato dato in affido alla sua famiglia un anno prima. Oggi che aveva sei anni – ma Margherita gliene avrebbe dati quattro – i suoi genitori lo volevano indietro e i servizi sociali, valutata positivamente la richiesta, avevano deciso per il ritorno alla famiglia di origine. A corredo del pezzo c’era l’intervista a un assistente sociale: “I motivi per cui il bambino era stato allontanato sono venuti meno e per quanto dispiaccia per l’affetto che la piccola nutre per il suo ‘quasi fratellino’, lui deve tornare con i suoi genitori che lo amano sopra ogni cosa”.
Finito l’articolo, Margherita con gli occhi lucidi a dispetto della prematura cataratta portò il giornale alla sorella. Dopo cinque minuti Rissa sollevò lo sguardo e disse: “Quasi fratellino un cazzo!”
Un cucchiaino, la fame passata, una bocca di bambino: l’avvio di una fiaba capovolta. Come le parole più dolci dette all’inverso, con le consonanti che insultano le fluide vocali. Come spiga che sfila al contrario nell’incavo di una mano.
Capitolo 1 – La sala saponata – 15 settembre 2019
“Vuoi spostare la mano dal mio filo di Arianna? Non riesco ad avanzare”. Fu ciò che Fausto Galletti, detto Il Piovra, lesse sulla speciale lavagnetta da immersioni dopo averla illuminata con la torcia subacquea collegata al suo casco. La frase era stata scritta dal suo compagno di squadra, Sergio Cara, detto Schizzo. Tutti gli speleo-sub dell’Iglesiente avevano un soprannome a tema sottomarino e in quel momento Il Piovra pensò, per associazione, che il suo sodale fosse un tantino schizofrenico.
“Le mie mani sono lontane dal tuo cavo”, scrisse a sua volta con lo speciale pennarello sulla lavagna, dopo avere cancellato con le dita l’invocazione di Schizzo. Diede poi una spintarella alla piccola superficie bianca perché arrivasse nel campo visivo dell’amico consentendogli di leggere la sua replica.
Non era facile comunicare sott’acqua al buio della “Grotta Manna” anche se non erano distanti uno dall’altro. Il tutto era complicato dalle bolle emesse dai rispettivi respiratori collegati alle bombole e dai corpuscoli in sospensione provocati dalla loro stessa presenza nella cavità sommersa.
Dopo aver letto, Schizzo portò gli occhi al cielo: la sua espressione seccata era evidente pure sotto la maschera illuminata dalla sua stessa torcia. Prese la lavagna che era annodata, assieme al pennarello, alla sacca degli attrezzi con i quali stavano ispezionando la consistenza di una roccia, cancellò e scrisse sopra: “E allora di chi cavolo è questa mano?” Fece mezzo giro su se stesso e puntò la torcia in alto sulla sua sagola rossa incastrata fra cinque dita bianche, troppo bianche realizzò un attimo prima d’inorridire e lanciare un silenzioso urlo subacqueo. Al candido fascio di Schizzo, si unì quello della seconda torcia ed entrambi puntarono su una mano che non era quella del Piovra. Mentre la loro respirazione si alterava facendo impazzire gli aghi dei misuratori di pressione, fecero scorrere le luci lungo ciò che restava di un braccio fino a puntare poi a una testa senza faccia. I due se la fecero dentro la muta all’unisono. Subito dopo Schizzo afferrò il suo filo di Arianna e lo tirò con tutte le forze che una mezza sincope in atto gli permetteva mentre Il Piovra urlava nel respiratore un muto “noooh!”. Schizzo non aveva mai baciato in bocca un uomo, ma fu più o meno quello che accadde anche se si trattava di un ex uomo e della sua ex bocca. Tirando a sé la cima, e quindi la mano aliena, si era tirato addosso quel corpo che prima volteggiava indisturbato sopra le loro teste.
Un groviglio di bolle e terriccio sollevato dal forsennato pinneggiare di Schizzo avviluppò la sala rendendo impossibile distinguere il sopra dal sotto, una mano cadaverica da una viva.
Per Il Piovra, che assunse la dinamicità di una statua sommersa per lunghi secondi, lo spettacolo dell’amico che alternativamente attirava a sé e poi respingeva l’incolpevole estinto in un macabro nuoto sincronizzato, fu cosa che tormentò i suoi sogni per settimane.
Alla fine, a furia di tirare, le dita defunte si spezzarono in brandelli di falangi e la sagola fu libera. Immersi come erano in una gigantesca orzata, ai due non restò che seguire a tentoni i rispettivi fili di Arianna per guadagnare l’uscita dalla sala tre della “Grotta Manna”, in seguito rinominata “sala del saponato”. Nome ispirato alle condizioni dell’uomo rinvenuto durante l’esplorazione subacquea destinata a diventare memorabile quanto lugubre.
Erano anni che la sezione subacquea del gruppo speleologico “Torpado e Lago” di Iglesias cercava la congiunzione fra la Grotta Manna, sul versante occidentale della Forra Menduledda, e la “Grotta Pitticca” alla quale si accedeva solo dal mare. Il letto del rio a carattere torrentizio alimentava un complesso carsico ancora misterioso proprio perché per lo più sommerso. Si ipotizzava che fosse collegato al mare attraverso una serie di cunicoli e sifoni che il gruppo speleo della cittadina sarda esplorava con costanza in quei mesi estivi del 2019. In modo ancora ignoto, il morto doveva avere trovato il passaggio, a giudicare dal fatto che aveva ancora addosso dei frammenti di un bermuda da mare. Elemento confermato poi dagli altri due partecipanti alla spedizione, quelli che aspettavano nel lato in secca della grotta con il cambio di bombole cariche di ossigeno. Accolti Il Piovra e Schizzo ancora terrorizzati e ansimanti, dopo avere ascoltato la loro sconvolta testimonianza si fecero coraggio e si immersero alla volta della futura “sala del saponato”. Constatato che i compagni di squadra non avevano avuto un’allucinazione, uscirono tutti e quattro dalla cavità e diedero l’allarme chiamando il 112 con il telefonino di Schizzo, l’unico che aveva campo in quella valle incassata fra i monti. Dopo qualche ora vennero raggiunti da una squadra dei Carabinieri subacquei di Cagliari che portò il cadavere fuori dalla grotta.
Una settimana dopo, Schizzo e Il Piovra seppero che si trattava di un bagnante affogato nella vicina spiaggia di Bonuentu almeno cinque giorni prima e il cui corpo era stato trasportato dentro la grotta dalla corrente del mare. “Il peggior modo di dimostrare una teoria”, avevano sentenziato i due.
Capitolo 2 – Astri avversi
Se c’era una cosa che a Mara piaceva, era correre sulla statale Orientale sarda facendo cantare le gomme nelle curve. Per questo quando la sua Bmw superò la frazione di San Gregorio per lanciarsi fra le anse alberate della sinuosa “Campu Omu”, disattivò il controllo elettronico della stabilità, selezionò l’assetto di guida sportivo al posto della versione “comfort” e attivò il cambio sequenziale invece della solita guida automatica. Pigiava a turno su freno e acceleratore finché dalle ruote si levava uno stridio che le desse soddisfazione. I motivi per correre poi, quella mattina non le mancavano: la velocità era un ottimo antidoto al velenoso e ricorrente pensiero che la sua mente distillava da settimane, ed era in ritardo per la prima riunione dopo la pausa estiva al comune di Muravera nella quale doveva degnamente rappresentare l’assessorato regionale all’industria annoiandosi mortalmente per almeno un’ora e mezza. Stava già pensando a cosa inventarsi per riuscire a stare sveglia – peccato non essermi mai data a corroboranti inalazioni di cocaina – quando in cima al passo di Arcu e tidu, ingresso per la foresta dei Sette Fratelli, le si parò di fronte un posto di blocco. Mentre dalla sua mente svaniva l’immagine di candide piste su appannati specchi, vi si materializzava invece quella della sua patente fatta a coriandoli fuori stagione dall’agente che proprio in quel momento stava sollevando una paletta foriera di multa a più zeri. La pilota dovette frenare bruscamente per rispettare l’alt e accostare dove le indicava l’agente. Si preparò quindi alla prevedibile ramanzina condita da pesante decurtazione dei punti abbinati alla sua licenza di guida.
“Buongiorno, favorisce patente e libretto?”
“Buongiorno a lei, il mio forse non lo sarà più”, disse Mara sporgendosi verso il cruscotto per tentare di farne emergere il libretto di circolazione.
“Mi sa che almeno la mattinata se l’è rovinata”, confermò l’agente con la mano tesa verso la patente. Quando la vide comparire sorrise: “Ma lei ancora gira con questa vecchia pezza? Come mai non gliel’hanno sostituita con la tesserina plastificata?”
“Non lo so”, fece lei sollevando gli occhiali da sole sulla fronte, decisa a sposare la tattica della mezza scema per stimolare simpatia. In realtà Tamara Talana era affezionata a quello straccio rosa bordato di bolli colorati e aveva sempre evitato di passare alla più moderna versione. C’era ancora la foto dei suoi diciotto anni in cui appariva più spettinata di quanto non fosse adesso perché, ora come allora, adorava guidare con i finestrini aperti soprattutto in giornate non troppo calde come quel 16 di settembre.
“Al prossimo rinnovo le verrà cambiata di sicuro”. L’occhio poliziotto cadde sulla data di nascita: “Non le sembra di essere troppo grande per giocare alle corse?”
L’animo polemico di Tamara suggerì una risposta che quello più saggio tenne per sé. Invece disse di essere in ritardo per una riunione a Muravera che avrebbe dovuto presiedere e di non essersi accorta di superare i limiti di velocità.
“Altroché se li ha superati”, sottolineò l’agente che continuava a spostare lo sguardo fra la data di nascita e la faccia della contravventrice. Mara sapeva a cosa stava pensando: il 1971 era poco coerente con il suo aspetto perché lei quarantotto anni non li dimostrava affatto, soprattutto con quell’espressione ingenua che si era dipinta sulla faccia e che, invece, era frutto di anni di esperienza. Per simulare un credibile candore le ci erano voluti lustri di raffinate bugie, sue e del resto dell’umano mondo che le avevano fornito opportuna ispirazione.
Mentre l’uomo in divisa ragionava sul fatto che fosse decisamente inopportuno fare a una donna in attesa di una multa i complimenti perché dimostrava dieci anni di meno, fra i suoi colleghi di pattuglia si animò un’ignota discussione.
C’erano due pantere ferme sul bordo della strada con tre agenti della polizia di Stato in divisa, giubbotto antiproiettile e mitraglietta a tracolla, stesso equipaggiamento che Mara aveva osservato nell’uomo che le aveva mostrato la paletta. I tre parlavano a turno gesticolando con un quarto che, invece, non era in divisa ma pareva il più autorevole e non perché fosse il più alto e grosso.
Mara lo vide entrare dentro una delle volanti, comunicare qualcosa al microfono del cruscotto, esibirsi in una mimica più delusa che arrabbiata nell’ascoltare la replica, e poi riprendere a parlare con i colleghi, più probabilmente sottoposti.
“E che lavoro fa la signora frettolosa?”, chiese l’agente cercando di riguadagnare la sua attenzione.
“Dirigente dell’assessorato regionale all’industria. Devo andare a discutere del futuro economico del Sarrabus, sa?” Rispose ostentando ironia.
“L’auto è sua o la multa la pagheranno i contribuenti?”
“È mia, e miei saranno gli euro che pagheranno la contravvenzione”.
Intanto all’altro lato della strada la discussione si faceva più animata.
“Scusi un attimo”, disse l’agente avvicinandosi al gruppetto armato con i suoi documenti ancora in mano. Mara osservava la scena incuriosita e quasi dimentica del suo destino di trasgressore del codice stradale. In attesa, estrasse dal cruscotto una spazzola e decise di mettere a frutto i tempi morti ricomponendo la chioma spiritata dalla velocità.
Mentre si pettinava, pensò che avrebbe dovuto chiamare sua sorella Viola, ma non era quello il momento: la scusa che si andava ripetendo da quando aveva ricevuto, puntuale alle otto e quarantacinque, la mail con il verdetto atteso. Rifece la riga dritta sulla destra e con la coda dell’occhio vide l’uomo in borghese porgere una mano verso l’agente che ancora custodiva la sua patente con il libretto. Senza neanche pensarci quello glieli consegnò: il piccolo gigante privo di uniforme li osservò, poi spostò lo sguardo verso l’auto di Mara, fece un’ultima dichiarazione e infine si incamminò verso la titolare dei documenti che ora stavano nelle sue mani.
La frequenza cardiaca di Mara subì una brusca accelerata e mentre l’uomo si avvicinava al suo finestrino non si accorse neanche di avere la bocca aperta e gli occhi sgranati.
“Signora Talana, lei correva parecchio ma si dà il caso che io abbia necessità di spostarmi da questo posto di blocco senza però disporre di alcuna auto”.
Faceva delle lunghe pause tra una frase e l’altra come se aspettasse una replica, ma Mara era troppo stupita per comprendere.
“Le pattuglie devono infatti restare in questo incrocio per motivi che non posso spiegarle e temo di non avere il tempo di attenderne un’altra che venga a prendermi…”
Alla fine afferrò: “Ha bisogno di un passaggio agente?”
“Per quanto la cosa sia inusuale… e decisamente contraria a ogni regolamento, non glielo nascondo…”.
“La prego insisto, immagino che si tratti di un’emergenza”.
“Immagina bene anche se non posso darle alcuna spiegazione e, mi creda, l’omissione è a suo beneficio”.
Mara non poté fare a meno di notare un marcatissimo accento veneto, variante vicentina per l’esattezza, ma non ci pensò nemmeno per un istante: “Salga a bordo”, disse indicando il sedile del passeggero.
“Sicura di non volere che sia io a guidare?” Chiese l’uomo che già allungava la mano verso la maniglia della portiera.
“Se ha fretta le conviene lasciare a me la gestione di questo bizzoso cambio automatico ora in versione sequenziale”.
“Va bene, non ho il tempo di convincerla a cedermi il volante”, convenne l’uomo facendo il giro del veicolo. Aprì la portiera mentre Mara lanciava la spazzola nel sedile posteriore, si sedette e allungò una mano quasi amichevole: “Ispettore capo Fabrizio Salice”.
“Piacere, Tamara Talana”, rispose lei stringendo la mano tesa verso la sua.
“Glielo hanno già detto che il suo nome sa di scioglilingua?”
“Parecchie volte, anche in rime cantate. Per questo preferisco che abbrevi in Mara. Non mette la cintura di sicurezza? Non vorrei contravvenire ulteriormente al codice stradale”.
“Eccomi assicurato. Partiam… Bel cazzotto in accelerazione. Ma faccia in modo che arriviamo interi a destinazione”.
“Quando mi ricapita di guidare con un agente a bordo e con licenza di correre sulla Campu Omu. A proposito: che ne sarà della mia multa?”, chiese Mara notando che il suo interrogativo aveva indisposto all’istante l’ispettore.
“Non era ancora stato redatto alcun verbale, quindi non c’è nessuna multa”.
Mara incassò in silenzio imponendosi minore confidenza per il resto del viaggio.
“Del resto, come avrà capito, non eravamo lì per controllare il traffico ma fermare un’auto ogni tanto serviva a farlo credere”.
Mara annuì in silenzio.
“Come mai va a Muravera passando da qui? – chiese l’ispettore – nessuno fa più questa strada da quando c’è la nuova statale 125 e lei è partita da Cagliari, giusto?”
“Giusto, ma il navigatore stamattina mi ha avvisata che c’era un incidente nella galleria dopo Santa Barbara. E poi da qui è più divertente”, disse tagliando una curva a gomito. “Dove la porto?”
“Le dirò io dove fermarsi, se non le spiace”, rispose l’ispettore mentre digitava qualcosa sul suo smartphone. Non era facile scrivere in quelle curve, quindi si arrese ai comandi vocali.
“Stai fermo dove sei e aspetta che arrivi io”, registrò al microfono dell’applicazione che poi avrebbe trasformato il messaggio in testo scritto, e inviò. Quell’uomo era bello come pochi ma ascoltare la sua voce era un supplizio, aveva un accento orribile per orecchie avvezze alla cantilena sarda. Mara notò pure che portava spesso una mano all’occhio destro e poi l’asciugava sui pantaloni.
L’abitudine poliziotta di scrutare gli ambienti nuovi portò Fabrizio a guardarsi attorno. “Va a fare una pausa al mare dopo la sua riunione?”, chiese alludendo alla sacca sul sedile posteriore che aveva tutta l’aria di contenere telo da mare, costume e abbronzanti.
“In effetti pensavo di fare un salto a Villasimius per svegliarmi con un tuffo dopo la soporifera adunanza di sindaci e amministratori vari cui mi tocca partecipare”.
“Beata lei”, annuì Fabrizio che ora posava lo sguardo sul vano porta oggetti della sua portiera dal quale sbucava una cartella medica. La fissò il tempo sufficiente per rendersi conto di essere inopportuno, poi si asciugò di nuovo l’occhio destro e spostò lo sguardo verso Mara che in quel momento abbassò gli occhiali da sole sul naso e poi prese una confezione di fazzolettini di carta dal vano attiguo al freno a mano. “Ha subito la lesione di un dotto lacrimale in battaglia?”, chiese porgendogli il pacchetto.
“Mi piacerebbe lasciarglielo credere ma si tratta di epifora, una sindrome di cui soffro da bambino. Anche se ormai si manifesta di rado”; rispose prendendo il pacchetto ed estraendone un fazzoletto con il quale asciugò l’occhio.
“Solo quando è in ansia immagino”, aggiunse lei senza aspettarsi repliche che infatti non arrivarono. “Mi dica la verità, se scoprono che ha chiesto un passaggio a una civile durante un’azione di polizia cosa le succede?”
“Sospensione da due a sei mesi direi. Senza stipendio”.
“Spiacevole eventualità. Ma con me il suo segreto è al sicuro. Non parlerò neanche sotto tortura”.
“La ringrazio ma è assai probabile che la sua omertà sia inutile”.
“Se sta rischiando tanto deve esserci qualcosa di grosso sotto”.
Lui non rispose ma fece una smorfia sonora che a Mara suggerì il vero motivo di quel rischio messo in conto. “Oppure ci deve essere qualcuno in pericolo”.
“Mi creda se le dico che lei non corre nessun pericolo dottoressa Talana”, lo sguardo gli era appena caduto sul badge poggiato su un incavo del cruscotto: recitava titoli, mansione, ufficio e indirizzi vari, tradizionali e informatici.
“Non mi preoccupo affatto è che…” Nell’abitacolo si diffuse il trillo di un telefono amplificato dalle casse dell’auto. Lo sguardo di Mara corse al display dove apparve il nome Viola.
“Mi scusi ma se non rispondo verrò disconosciuta come sorella”.
“Buongiorno Viola prima che tu mi…”
“Buongiorno un cazzo dimmi subito come è andata che ho il cuore stretto da tre ore. Mi hai detto che il laboratorio ti avrebbe mandato un’email appena aperto e invece…”.
“Non sono sola in auto, c’è un poliziotto con me e sei in viva voce”.
“Non raccontarmi stronzate. È andata male, vero? Se non mi hai chiamata subito vuol dire che è maligno!”
Mara portò inavvertitamente una mano alla testa e nell’abitacolo la temperatura crollò di almeno dieci gradi a dispetto della calura crescente di quell’incendiario settembre sardo.
“È benigno invece, stai calma”.
“È operabile quindi?”
“Sì”.
“Allora perché cazzo non mi hai chiamata per farmelo sapere?”
“Perché se mi faccio operare ho il settanta per cento di possibilità di uscirne come sono ora. Ho avuto stamattina un colloquio con la neurologa e… ma ne possiamo riparlare in un altro…”.
“E per il restante trenta?”
Mara inghiottì a vuoto: “Non ti riconoscerei più. Potresti darmi da bere come fai con le ortensie ma io ti darei molte meno soddisfazioni”.
“E se non ti operassi invece?”
“Continuerebbe a crescere e potrebbe diventare maligno. In ogni caso crescerebbe finché non ti riconoscerei più. Senti Viola mi devi perdonare ma ora proprio non posso dirti cose che neanche io so. Dobbiamo sentirci più tardi”. Dalle casse uscì un singhiozzo.
“Aspetta, ho scoperto che nome ha: astrocitoma. Molto zodiacale vero? Ascendente cancro”.
“Stavolta non ci riesci Mara”, replicò la sorella prima di erompere in inconsolabile pianto e porre fine alla chiamata. Il silenzio fece bene a entrambi ma nessuno dei due lo sopportò per più di tre secondi.
“Mi dispiace…”, dissero all’unisono.
“Senta mi farà un favore se farà finta di non avere sentito questa telefonata”, disse lei.
“Va bene, fingerò di non conoscere il suo nefasto oroscopo”, rispose lui. Solo, le posò una mano sulla sua, quella che teneva sul cambio. Ve la lasciò finché lei non dovette scalare marcia, poi tornò a dividere le sue attenzioni fra il telefonino e la strada.
Mara non si divertiva più a correre in quel solco scavato in mezzo alle montagne e con la coda dell’occhio notò che il suo passeggero si teneva alla maniglia sopra il finestrino.
“Non ha da temere per la sua incolumità, il tumore è nel cervello ma non ha intaccato i miei riflessi. Finora gli unici sintomi sono stati perdita di equilibrio durante i miei esercizi di pilates su una gamba sola. Non sono ancora iniziate neanche le ‘saltuarie alterazioni di giudizio con conseguente comportamento inadeguato al contesto’”, recitò Mara attingendo mentalmente al foglio diagnostico redatto dalla sua neurologa.
“Tipo correre come una matta su questa specie di mulattiera?”
“Tipo chiedere un passaggio a una sconosciuta per un abboccamento con la malavita organizzata”, rispese lei maligna.
“Touché”, rispose lui staccando la mano dalla maniglia e portandola al petto.
All’uscita da una curva ma ancora in pieno bosco, Fabrizio iniziò a sporgersi per guardare meglio oltre la carreggiata. “Ecco, dopo questo tornante c’è una strada bianca sulla sinistra, la prenda per favore ma rallenti. Va bene, ma qui deve andare molto piano”. Si girava a destra e sinistra finché, dopo poco meno di un chilometro, non sobbalzò. “Cazzo! Mi scusi ma si fermi subito, anzi accosti dietro quell’albero, così l’auto è troppo esposta”, disse indicando un punto in cui la strada quasi si chiudeva nel folto della vegetazione. Estrasse un mini-binocolo da una tasca del giubbettino smanicato che indossava a dispetto del caldo già intenso alle dieci del mattino, uscì dall’auto e, nascosto dal fogliame, si mise a osservare un gruppo di uomini che si intravvedeva su uno spiazzo distante almeno duecento metri. Poco dopo rientrò nell’abitacolo. “Mi dispiace averla coinvolta, soprattutto in un momento così delicato per lei, ma non mi è venuto in mente niente di meglio per arrivare qui e ora vedo che avevo ragione a temere il peggio”, disse riponendo il binocolo ed estraendo una pistola dalla fondina sotto la sua ascella sinistra. Tolse la sicura e la rimise al suo posto, poi fissò Mara negli occhi. “Appena sarò sceso dall’auto, lei mette la retromarcia e se ne va alla sua riunione di lavoro. O meglio direttamente al mare, ne avrebbe diritto”.
Mara annuì incapace di replicare a parole. A parte un vecchio cimelio di suo nonno, non aveva mai visto una pistola da vicino, tanto meno pronta a sparare. Lui le posò di nuovo la mano su quella che lei ancora teneva avvinghiata al cambio, strinse cercando di comunicarle ciò che non aveva il tempo di spiegare e poi aprì lo sportello. Uscì dall’auto tenendo la testa bassa, fece alcuni passi e poi si girò verso Mara per farle segno di andare via. Lei non riusciva a muoversi e allora lui le ordinò di andarsene con una mimica inequivocabile: non si sarebbe mosso da lì finché non fosse scomparsa dalla sua vista. Mara mise la retromarcia, si girò per tornare indietro e partì. Dopo un centinaio di metri si fermò in tempo per vedere Fabrizio incamminarsi lontano dalla strada sterrata e svanire tra le foglie del sottobosco.
Andarsene era sicuramente la cosa più intelligente da fare, ma a Mara l’idea non passò neanche per l’ultima delle sinapsi. Invece tornò indietro lentamente per non attirare l’attenzione, del resto la sua auto era ibrida e a quella velocità non emetteva alcun suono, in più era scura e non spiccava nell’ombra del bosco. Per accertarsi di non essere stata notata, si fermò dove poteva scorgere, attraverso il fitto fogliame, il gruppo di uomini verso cui si era avviato Fabrizio. Era convinta che quella curiosità potesse portarle solo rogna, ma la telefonata con la sorella le aveva messo addosso un magone tale che pensò potesse levarglielo solo una sana dose di paura.
Vedeva quattro figure, tre delle quali discutevano in modo concitato. Sembrava che ce l’avessero contro il quarto uomo e ne ebbe la conferma quando iniziarono a strattonarlo e spingerlo a turno verso un’auto che Mara prima non aveva notato. Vide pure che uno dei tre era armato di fucile e lo puntava verso il malcapitato mentre un altro gli legava i polsi. Fu a quel punto che comparve Fabrizio provocando evidente conforto nell’uomo che era stato legato ma irritazione negli altri. Dalla gestualità delle mani sembrava che l’ispettore stesse tentando di raffreddare gli animi mentre parlava a quello che doveva essere il capo della banda. L’uomo però non pareva affatto rassicurato dalle sue parole, anzi sembrò alterarsi di più finché a un certo punto quello armato puntò il fucile direttamente alla testa di quello che era stato spinto verso l’auto mentre il capo banda iniziava a mettere le mani addosso a Fabrizio. Fu una vera e propria perquisizione, e quando arrivò alla pistola, la estrasse e la puntò contro il suo proprietario. Mara prese d’istinto il telefonino: ovviamente non aveva campo in mezzo a quella foresta. Avrebbe potuto tornare al posto di blocco e allertare la polizia ma avrebbe impiegato troppo tempo. Dal finestrino aperto iniziarono ad arrivare le grida dell’uomo con la pistola. Non si capiva cosa stesse dicendo ma si intuiva un’ira profonda.
Mara abbassò il vetro completamente e tese l’orecchio.
“… e inzà deu ti bocciu con su ferru tou…”. Fu l’unica frase pronunciata in campidanese che comprese. Mara aveva madre fiorentina e padre cagliaritano, entrambi docenti universitari che, finché erano in vita, in casa non avevano mai parlato alcun dialetto. Lei però qualcosa l’aveva imparata dai compagni di scuola e d’università: una sorta di via di mezzo fra lingua logudorese e campidanese.
Di recente Mara aveva però avuto occasione di mettere in pratica quell’ibrido che in realtà non rendeva giustizia ad alcuna tradizione idiomatica: l’esercitazione del corso di teatro al quale l’aveva iscritta sua sorella Viola, convinta che l’avrebbe aiutata a “superare il difficile momento”. A Mara era sembrata una vera idiozia darsi al teatro con un tumore nel cervello. Poi aveva realizzato che imparare a recitare, in quel frangente potesse aiutarla a liberarsi della pena traboccante dagli occhi dei suoi congiunti, i pochissimi che sapevano dell’astrocitoma, suo marito compreso. Riccardo aveva insistito perché Mara si mettesse in malattia e invece lei, a parte le giornate dedicate alle visite, non ne aveva voluto sapere. Stare a casa a sentire quell’ombra crescerle nella testa era escluso.
“Con custu strangiu deppisi chistionai in itallianu asi nunca non ti cumprendiri”, disse uno degli uomini al capo.
“Già l’ha capito che se non fa da bravo lo ammazzo proprio con la pistola sua – ripeté l’altro – . Anzi, sai cosa fai adesso, scimpru de una pulima? Ti metti comodo in ginocchio mentre noi aspettiamo una telefonata”.
Mara non riusciva a vedere bene la scena ma non poteva non notare che l’ispettore, pur sulle ginocchia, non era tanto più basso dei suoi aguzzini che, invece, parevano una banda di nani. A dispetto della paura che lei per prima provava, l’immagine le riportò alla mente proprio il suo corso di recitazione e l’assurda commedia che era stata prevista come saggio finale. Una versione comico-amara di Biancaneve, in cui Mara vestiva i panni di una strega alternativa: in realtà una spacciatrice di frutti drogati.
La donna che gestiva il corso di recitazione a giudizio di Mara era una “mezza matta” che credeva di avere tratto sintesi dal metodo Stanislavskij unito alla psicomagia di Jodorowsky. Secondo la teoria di Marisa Talericcio, maestra e regista teatrale, l’interprete doveva essere creativo. “Recitando pieghi il mondo intorno a te. L’attrice deve morire partorendo il personaggio e se tu ci credi, sarai creduta. Devi diventare, non recitare”.
Mara, alla quale in realtà sarebbe piaciuto prestare fede all’esaltata filippica, era refrattaria a tutto ciò che non superasse il vaglio della sua prepotente razionalità. A ogni modo non aveva perso una lezione e per l’esercitazione prevista si era preparata a vestire i panni della maga spacciatrice che parlava un italiano stentato e intercalato da frequenti e volgarissime esclamazioni dialettali. Peccato che la sua esibizione non avesse mai avuto luogo: il consulto neurologico che aveva reso necessaria la seconda biopsia di cui aveva avuto il responso propria di prima mattina, era stato fissato in corrispondenza della data del saggio teatrale.
Il lontano trillo di un telefono smontò quinte e americane del palco mentale di Mara mentre il capo della banda, con la pistola in una mano e il telefonino nell’altra, rispondeva senza abbassare l’arma.
“Bruttu fill’e bagassa”, esclamò prima ancora di chiudere la comunicazione e subito dopo calò con forza il calcio della pistola sulla testa di Fabrizio. Lui barcollò, si rimise in piedi ma non reagì.
“Io vi ammazzo tutti e due. Il camion è stato fermato da una pattuglia a Villaputzu”, sentenziò il capo mentre l’ispettore cercava di convincerli, senza successo, che uccidere due poliziotti avrebbe solo peggiorato la loro situazione.
Mara pensò a una possibile sintesi di tutte le folli emozioni che l’avevano animata nell’ultimo periodo: il tumore, poi rivelatosi benigno ma non meno pericoloso di uno maligno, la recitazione che ti può trasformare in ciò che vuoi se sei brava abbastanza, e infine la paura che può uccidere l’angoscia. La paura di morire per un colpo di rivoltella che uccide quella di crepare sotto i ferri di un chirurgo o, peggio, quella di sopravvivere al bisturi in versione ortensia.
Quale vita salvava scappando? Valeva la pena metterla a repentaglio per cercare di salvarne altre due? Lui era stato gentile, le aveva posato una mano sulla sua per confortarla e lo aveva fatto usando l’ironia anziché la pietà. In quel momento lo aveva amato e ora non poteva guardarlo morire. Ma come poteva lei portare salvezza a due poliziotti che non sapevano uscire dai guai da soli? Valeva la pena rischiare la vita senza neanche sapere se sarebbe riuscita a essere di aiuto?
“Se sarai abbastanza brava gli farai credere ciò che vorrai”, sentì ripetere dalla voce fantasma della maestra Marisa. Altrimenti ti spareranno in testa – disse Mara fra sé e sé – e magari il tumore verrà via con una pallottola anziché col bisturi. Perché Mara aveva tanta paura dell’operazione al cervello, da pensare che la morte veloce, con una revolverata, potesse essere preferibile. Siamo sinceri – disse a se stessa – al massimo puoi portare caos, un attimo di confusione che dia forse l’occasione a quei due di recuperare la situazione. Magari almeno uno potrebbe salvarsi. Almeno Fabrizio.
Il suo sguardo corse inavvertitamente alla cartella medica sulla portiera del passeggero: “cambiamenti di personalità, alterazioni del giudizio o comportamento inadeguato al contesto”, recitava la diagnosi dell’astrocitoma fra i sintomi possibili. E sia, pensò Mara. Abbassò il parasole e si guardò nello specchietto: era di nuovo spettinata ma il trucco disegnato sul suo viso la mattina era ancora perfetto. Si stropicciò gli occhi, si levò la collana d’oro bianco che faceva il giro del suo collo e si sporse verso il sedile posteriore per prendere la borsa del mare. Recuperò un paio di giapponesi in gomma e le infilò al posto degli eleganti sandali con tacco che portava. Aprì lentamente lo sportello e uscì dall’auto, sollevò un poco la gonna che arrivava sotto il ginocchio, sbottonò due bottoni sulla scollatura della camicia a maniche corte ed estrasse dalla gonna la parte inferiore annodandola in vita. Sperando di avere cancellato l’aria da pubblico dirigente, si avviò lentamente verso il gruppetto di uomini ignorando la sua vocina interiore che ripeteva questa è la peggiore cazzata della tua vita, non ci cascheranno.
Quando arrivò a una cinquantina di metri dallo spiazzo dove si trovavano gli uomini, era iniziato un vero pestaggio.
“Ma davvero ti pensavi che non ci accorgevamo che custu bastasciu è uno sbirro? E bell’affare hai fatto a venirtene qui a cercare di salvarlo”. L’uomo che aveva parlato aveva iniziato a colpire Fabrizio a un fianco mentre il capo banda lo teneva sotto tiro.
“Custu prus mannu du bocceus innoi, qui lo voglio ammazzare. Ma con cuss’attru traidori mi bollu spassiai nottesta. Portalo a Campu Abbruxiau”, disse ancora il capo indicando i due poliziotti a turno. L’uomo con il fucile aprì il bagagliaio di una vecchia Alfa Romeo, sollevò il pianale e ci nascose sotto l’arma. Fissò di nuovo il pianale e poi spinse il collega di Fabrizio per farlo entrare nel bagagliaio.
Fu a quel punto che Mara decise di uscire dal suo nascondiglio urlando. “Ah millu aundi dimoniu viasta. Qui ti sei cacciato, oh bruttu malaittu!”. Camminava a lunghe falcate dimenando il sedere come se fosse più grosso della sua modesta taglia 42.
“E custa chini cazzu è?”, esclamò il capobanda sconvolto dall’insolita presenza.
“Chini seu deu? Chini ses tui? Deu seu sa mulleri de custu disgraziau”, urlò Mara continuando ad avanzare verso Fabrizio prima che lui potesse emettere alcuna replica. L’ispettore era comunque tanto basito da non avere neanche elaborato una risposta, anche perché di ciò che Mara aveva detto aveva colto solo che mulleri significa moglie. Anzi in principio non l’aveva neanche riconosciuta: sembrava più giovane, più bella oltre che infinitamente più rozza.
“Mi molli a casa come una serva e te ne vieni qui a giocare a guardia e ladri cun is amigheddusu e bai e circa itta dimoniu ses cumbinendi”. Ormai era arrivata a pochi passi da Fabrizio tra lo stupore generale: sembravano tutti congelati mentre l’unica a muoversi con rapidità era Mara.
“Oh ma itta cazzu…”, cercò di dire il capo banda agitando la pistola ma lei lo interruppe urlando ancora di più.
“Itta cazzu lo dico io. Ma lo sai cosa mi ha combinato custu burdu malaittu?”, gridò Mara gesticolando davanti alla faccia dell’uomo che impugnava la pistola. “Diglielo itta m’as fattu disgraziau”, urlò rivolta ora verso Fabrizio che restava con gli occhi spiritati. Iniziò a strattonarlo cercando di allontanarlo dall’uomo che lo stava colpendo poco prima.
“O sa signora calmarì chi…”
“E tu cosa stai facendo con questa pistola? Lo vuoi accoppare? Ah guarda che mi fai solo un piacere. Bocciddu a custu porcu dimoniu”.
Lo sconcerto si impadronì dell’uomo armato, non sapeva più che dire né cosa fare di fronte a quella furia di donna. Era intontito dalle sue urla e dal suo gesticolare che impedivano non solo di pensare.
“Ammazzalo, altrimenti lo ammazzo io”. Ripeté Mara tornando verso l’uomo armato che ora la pistola la puntava contro di lei.
“Custa è macca perdia”, fece in tempo a dire prima di essere di nuovo investito dalle grida di Mara.
“Mìh! S’è postu a prangi, mischineddu su pippiu”, disse lei indicando con scherno Fabrizio.
L’uomo lo guardò ed effettivamente vide diverse lacrime a solcargli metà viso. Non era certo la prima volta che vedeva un uomo piangere, soprattutto se il frignone stava dalla parte sbagliata della canna di una pistola. Tuttavia si trattò dell’ennesima informazione da elaborare per una mente poco elastica e duramente provata da anni di abusi alcolici, circostanza resa evidente dall’espressione poco sveglia che gli si era dipinta sul volto. Per Mara fu una conferma: non doveva lasciargli il tempo di ragionare.
“Dammi questa pistola che lo ammazzo io custu bruttu porcu”. Disse raggiungendo l’uomo che ora puntava l’arma in modo incerto. “Dalla a me e du bocciu deu, così non ti sporchi le mani con custu fill’e porca”, fu a quel punto che mise la mano destra sulla canna della pistola.
“Tu sei matta davvero”, disse quello fissandola negli occhi da folle che Mara aveva allestito per l’occasione: l’ultima recita della sua vita.
Quello che lei vedeva era la vacuità del turbamento. Lo sconcerto di un uomo che non sa cosa fare: sparare o aspettare. Sparare o piuttosto usare la pistola per darla in testa a quella pazza sbucata fuori dalla foresta. E mentre la sua mente stava formulando proprio la domanda: da dove è arrivata questa qui?, Mara intravvide l’attimo: sentì l’indice dell’uomo allentarsi sul grilletto e pensò addio. Tese tutti i muscoli e strappò la pistola dalla mano del delinquente.
Non ci fu alcuno sparo ma in un attimo l’espressione del capo banda le rivelò che avrebbe usato tutta la sua forza per tornare in possesso dell’arma. Mara non avrebbe avuto il tempo di impugnarla e brandirla a sua volta contro di lui, del resto non aveva mai sperato di riuscire a impossessarsene davvero quindi proseguì il movimento con cui l’aveva disarmato e lanciò la pistola il più lontano possibile. Appena toccò terra, il boato della detonazione produsse un democratico spavento: ognuno ebbe paura di essere colpito dal proiettile che, invece, andò a conficcarsi sull’ultimo ramo del grande leccio che faceva ombra su quell’accolita tanto inconsueta per un bosco solitamente placido. Lo sparo produsse anche un altro effetto: la fine della rappresentazione teatrale di Mara e l’immediato risveglio del suo piccolo pubblico che ora aveva un unico obiettivo, impossessarsi della pistola scagliata via, unica arma ancora in circolazione. Il volo l’aveva fatta finire vicino ai piedi dell’uomo che aveva legato il collega di Fabrizio e lo aveva infilato nel bagagliaio, ma mentre quello si inchinava per andare a raccoglierla, l’altro si sollevò e gli si buttò addosso pur con le mani dietro la schiena. I due rotolarono a terra mentre Fabrizio, che era invece il più lontano dall’arma, si chinò, raccolse due pietre e le scagliò contro il capo banda che, colpito a una tempia, rovinò a terra. Subito dopo si lanciò verso l’uomo che lo aveva riempito di pugni. Lo raggiunse proprio mentre quello si chinava verso l’arma: la posizione ideale per riceve un calcio in faccia che lo stese senza possibilità di replica. Ne restava uno da mettere fuori combattimento ma a quel punto erano due poliziotti contro uno e alla fine Fabrizio si riprese la pistola d’ordinanza. Intanto si sentivano le sirene dei rinforzi che erano stati allertati dall’ispettore Salice nel tragitto dall’auto di Mara alla porzione di foresta teatro della lotta appena conclusa: era riuscito a inviare un messaggio con la posizione e la richiesta di intervento immediato. Era stata proprio una delle due pattuglie dei suoi colleghi la prima ad arrivare e mentre la banda veniva caricata sulle auto, Fabrizio si girò verso Mara che stavolta era rimasta immobile per il terrore con le dita tremanti appese alle labbra durante tutta la fase della rincorsa alla pistola. Si era urinata addosso e ora teneva le mani strette contro il grembo come se volesse nasconderlo. Gli occhi invece riuscivano ancora a trattenere le lacrime.
Non c’era più traccia della dirigente regionale sicura di sé che gli aveva dato un passaggio, e nemmeno della sguaiata finta moglie capace di sfidare un trafficante d’armi.
In quel momento era la donna più bella che Fabrizio avesse mai visto e anche se sapeva che abbracciandola l’avrebbe fatta scoppiare a piangere, si incamminò verso di lei e la strinse a sé: “Sei una pazza Mara, ma non so cosa avrei fatto senza di te”. I singhiozzi furono immediati e i motivi per piangere così tanti che lui dovette stringerla più forte di quanto avrebbe voluto.
“Settanta a trenta, Mara. A farti ammazzare non ci sei riuscita quindi, non c’è storia: devi farti togliere l’astronefasto dalla testa e continuare a vivere. Ora che sei mia moglie poi, avrò pure il diritto di dire la mia”.
E il pianto si trasformò in riso.
Capitolo 3 – Sotto luna bugiarda
“Incontriamoci sotto la luna”, aveva detto Mara a Fabrizio, e dopo avere varcato l’arco d’ingresso dell’ex manifattura tabacchi di Cagliari, lui capì cosa aveva inteso. Al centro di una delle piazzette di quello che da qualche anno si era trasformato in un centro culturale aperto a mostre e installazioni d’arte stava, sospesa a mezz’aria, una gigantesca sfera che riproduceva la vera luna fino nel minimo vulcano. Era in anticipo di qualche minuto e quindi si prese il tempo di girare attorno al satellite in scala per verificarne la precisione. Sul pannello deposto al suolo lesse che era opera di un certo Luke Jerram e che ogni centimetro corrispondeva a cinque chilometri di crosta lunare. Ma lui era soprattutto il lato oscuro che voleva vedere, quello che gli umani non astronauti non avranno mai occasione di contemplare dal vivo.
Quando abbassò lo sguardo al polo sud lunare realizzò che Mara stava di fronte a lui a qualche metro e lo guardava divertita.
“Fa lo stesso effetto a tutti: adulti o bambini, e ora so che non ne sono esenti neanche i poliziotti”. Disse avvicinandoglisi indecisa se porgergli la mano o dargli un più confidenziale bacio su una guancia. L’ultima volta in cui si erano visti, si era appena urinata addosso e lui l’aveva abbracciata così forte da renderla indecisa se continuare a respirare o meno. Ingredienti capaci di annullare qualsiasi formalità, così decise di fare uno di quegli esercizi che durate le ultime lezioni di pilates le avevano provocato repentine perdite di equilibrio: si mise sulle punte e si allungò per arrivare alla sua guancia mentre lui si abbassava per agevolarla. Con i tacchi Mara superava il metro e settanta ma Fabrizio superava il metro e ottantacinque e baciarlo richiedeva elevazione. Era passata una settimana dal loro incontro sui monti e Mara gli pareva dimagrita, non tanto e forse poteva essere solo l’effetto del tubino blu che indossava. Gli aveva dato appuntamento all’uscita dal lavoro e doveva essere ancora in divisa da dirigente, valutò lui pensando che la sua di divisa era molto più casual: jeans e polo blu royal.
Era bella a dispetto del male benigno che le cresceva dentro: lo nascondeva bene fra i capelli biondo cenere e dietro gli occhi truccati di blu per esaltare il grigio dell’iride. Fabrizio la immaginò mentre allo specchio stendeva il mascara sulle ciglia indecisa se vivere o morire. L’aveva vista rischiare una pallottola nello stomaco con quella mano sulla canna della pistola: non lo avrebbe mai dimenticato.
“Come stai?”, le chiese realizzando che mai formula di saluto fu più pertinente. Erano giorni che cercava di conoscere le sue condizioni ma le poche volte in cui si erano sentiti lei era stata evasiva. Alla fine, un incontro fra i due era diventato necessario perché Fabrizio di lì a breve avrebbe dovuto affrontare un procedimento disciplinare proprio a causa del passaggio che aveva chiesto a Mara e lei sarebbe stata chiamata a testimoniare dalla commissione giudicante due giorni dopo.
“Come una che ha un tumore in testa ma se ne frega e fa finta di stare alla grande”.
“Fingi benissimo allora e l’astrocitoma ti dona. Sarà per questo che mi hai dato appuntamento sotto un altro astro?”
“Non è bellissima? Sarà la terza volta che vengo a vederla, aspetta che sia buio e vedrai come si illumina”.
“Vuoi restare qui con me fino al tramonto a fare la lunatica?”
“Non ti trasformerai in un lupo poliziotto?”
“Per due mesi almeno, poliziotto non lo sarò. Mi hanno confermato che la sanzione non dovrebbe essere superiore ma non so ancora a partire da quando. Vedremo dopo l’udienza alla quale ti toccherà partecipare”.
“Bene! Quando ti ricapita una vacanza così lunga e se coinciderà con la mia malattia post intervento avrai il tempo di venire a non portarmi i fiori”.
“Allora hai deciso, ti farai operare?” La gioia lo illuminò così sincera che Mara sentì un tuffo cardiaco che fece schiuma marina fino agli occhi.
“Quasi deciso. Mi servono delle promesse prima. Una l’ho avuta da mio marito e mia sorella, l’altra forse la chiederò a te. Ma ora raccontami le tue novità, prima che l’emozione mi sovrasti e la luna mi faccia piangere. Non puoi mica raccogliermi in lacrime ogni volta che ci vediamo. Cerchiamo un posto a sedere?”
“Oggi tra l’altro non dovrebbe essere necessario salvarmi la vita quindi…”
“Non ti ho salvato io, i tuoi colleghi stavano arrivando”.
“Vieni, da quella parte c’è un tavolino libero”, disse guidandola verso il bar ospitato dentro la terza piazzetta di quella che fu una fabbrica di tabacco. “A ogni modo non so se avrebbero fatto in tempo. La banda aveva già caricato in auto Marcello e avrebbero potuto spararmi da un momento all’altro. Certo alla disperata e prima di farmi infilare nella testa una delle mie pallottole avrei tentato qualcosa, ma se ci sarei riuscito non lo sapremo mai. Dimmi la verità: hai cercato di farti ammazzare laggiù?”
“Macché, ero sicura che la mia interpretazione della pazza in limba avrebbe funzionato”.
La guardò con quegli occhi d’azzurro lavato e stinto da troppa luce. Un altro tuffo, un’altra onda. Distolse i suoi per non cadere pur da ferma e si sedette sulla sedia prima ancora che lui gliela offrisse. Aveva il tipico fare galante e protettivo degli uomini che scostano la sedia dal tavolo per la propria accompagnatrice.
Finalmente uno di fronte all’altra con una superficie in mezzo coperta da tovaglietta e due tipi di menù: caffetteria e alcolici. Le 18.30 erano sufficienti per un aperitivo e Mara decise per uno spritz. Confermò la scelta quando si avvicinò un cameriere e Fabrizio optò per la versione rossa.
“Cosa mi chiederanno? E cosa vuoi che dica?”
“Gli ho già detto tutto io quindi puoi raccontare come è andata in realtà. C’erano troppi testimoni e non si poteva fare altrimenti anche volendo. E tutto sommato non voglio”.
“Ma ti puniranno”.
“Lo faranno perché ho violato il regolamento ma a malincuore perché hanno capito le mie ragioni. Anche se mi hanno ribadito in tutte le lingue che mai avrei dovuto mettere a rischio la tua vita e piuttosto avrei dovuto spostarmi con una delle pattuglie e lasciarne una sola al posto di blocco”.
“Ma così avrebbero impedito la mia splendida interpretazione della moglie invasata”.
Fabrizio abbozzò un breve sorriso. “In realtà io non ho mai pensato di metterti in pericolo, intendevo farti fermare molto prima rispetto al luogo in cui la banda sostava e farmela a piedi nel bosco, ma ho male interpretato le indicazioni del mio collega Marcello”.
“Del resto non era facile orientarsi in quella foresta. Ma che diavolo ci facevano lì quei maledetti. Traffico d’armi?”
“Non sono autorizzato a parlarti dell’operazione che per pochissimo non è andata a monte. Posso dirti solo che era da un pezzo che io, Lello e il resto della squadra cercavamo di bloccare un traffico di kalashnikof che dall’Est Europa arriva al centro della Sardegna. Pare che a molti barbaricini piaccia collezionare fucili da guerra”. Mara annuì come se conoscesse quei barbari costumi. “Se poi li usino solo per diletto o meno, è ancora da scoprire”. Proprio in quel momento arrivarono i due aperitivi accompagnati dalle tipiche pizzette cagliaritane. “A ogni modo – continuò Fabrizio – Lello si era infiltrato nella banda che era in contatto con i romeni esportatori delle armi. Non ti posso spiegare come hanno scoperto che è un poliziotto proprio il giorno in cui avevamo predisposto il posto di blocco sull’Orientale sarda per fermare un carico. In realtà non si è reso conto che la sua copertura era saltata fino a che non ha visto la bocca di un fucile a mezzo metro dal naso. Aveva solo subodorato diffidenza nei suoi confronti e me lo aveva riferito in termini di sospetti. Quando ho saputo che era in pericolo, sono andato io soltanto per non spostare le pattuglie e perché pensavo di avere più possibilità di riuscire a tirarlo fuori dai guai da solo rispetto a due pantere a sirene spiegate che, in più avrebbero perso il carico di fucili”.
“Alla fine però quel carico lo avete preso.”
“Non sono autorizzato a confermarlo”.
“Ma nella tua faccia leggo soddisfazione, quindi direi di sì”.
Fece un occhiolino che a Mara piacque tanto da strapparle un risolino da ventenne.
“Invece quello che ti posso dire è che quella è brutta gente e hai corso un rischio enorme con la tua recita della consorte bifolca. Certo non è gente che spara alle donne a cuore leggero…”
“È proprio su questo che ho fatto affidamento”.
“Piuttosto azzardato comunque”.
“Va bene ispettore capo ma adesso leviamo i calici e brindiamo allo scampato pericolo”.
“Alla tua e, soprattutto, al tramonto dell’astrocitoma”. I bicchieri tintinnarono mentre dalle grosse casse ai lati della piazza Sting iniziava a cantare Moon over Bourbon Street, prima di una lunga compilation lunare. Il volume era piacevolmente basso e non riuscì a coprire il breve trillo proveniente dallo smartphone di Fabrizio.
“Scusa ma finché non mi sospendono resto un poliziotto”, disse prima di leggere il messaggio che gli increspò la fronte all’istante.
“Cattive nuove? Novità delle quali ovviamente non puoi parlarmi?”, chiese Mara agitando la cannuccia fra i cubetti di ghiaccio a mollo nell’arancio.
“Una strana morte. Magari parlarne con una persona intelligente che non ragiona come un poliziotto mi aiuta”.
“Come sai che sono intelligente?”
“Tu hai una specie di etichetta addosso, sprigioni intelligenza. È la prima cosa che si nota di te”. Ci pensò meglio mentre sorbiva un sorso di aperitivo: “Anzi la seconda”.
“Ah, immagino che la prima cosa che si nota della sottoscritta sia l’elegante portamento”.
“Infatti”, disse Fabrizio facendole il secondo occhiolino.
“Non so se sono più curiosa dell’insolito decesso o di sapere se secondo te si notano prima le mie tette o il mio sedere”.
A Fabrizio andò di traverso l’aperitivo e più che ridere tossì mentre Mara gli porgeva un tovagliolo.
“Ma io soddisferò solo la prima delle tue curiosità”, rispose mentre continuava a ridere. Mara inghiottì una porzione di pizzetta o lo invitò a continuare mentre Loredana Berté iniziava a cantare E la luna bussò.
“Qualche giorno fa degli speleo-subacquei che stavano esplorando una grotta sommersa nell’Iglesiente hanno trovato il cadavere saponificato di un uomo”.
“Bello spavento deve essere stato”.
“Se lo sogneranno per un pezzo di sicuro. L’uomo era morto da almeno cinque giorni ma la cosa strana è che era in costume da bagno”. Tamara strizzò gli occhi facendosi più interessata.
“Gli speleo-sub hanno subito ipotizzato che fosse annegato nella costa, che sta poco lontana dalla zona carsica, e che qualche corrente lo avesse spinto dentro un cunicolo che collega il mare alla grotta. Pensa che loro erano lì proprio per cercare quel collegamento, anzi sono anni che lo cercano e ipotizzavano che lo sbocco a mare fosse nella zona di…”, lesse di nuovo il messaggio che gli era appena arrivato: “Bonuentu. Ora è arrivata la conferma che il cadavere appartiene a un uomo che è sparito dalla costa proprio dieci giorni fa. Lo hanno visto entrare in acqua la mattina e non ne è più riemerso. L’autopsia ha confermato il decesso per annegamento”.
“Non sarebbe il primo che affoga a Bonuentu”, commentò Mara.
“Anche io ricordo di avere sentito di un annegamento in quel tratto di mare due anni fa, quando sono arrivato in Sardegna”.
“Due anni fa? Quello di cui parlo io è di almeno sei anni fa e ricordo che mi colpì perché c’era stata un’altra vittima, sempre a Bonuentu, un anno prima”.
“Accidenti, allora sono quattro in tutto: il morto della settimana scorsa, quello che ricordo io e i due che ricordi tu”.
“Non so cosa dicano le statistiche sugli affogamenti in Sardegna ma la cosa è strana. Tra l’altro conosco la zona e, per quanto stia nella costa occidentale, più esposta al maestrale, è in un’insenatura che la protegge dai venti forti e da correnti pericolose. Non a caso si chiama Bonuentu”.
“Davvero conosci bene quella costa?”, chiese Fabrizio mentre l’attenzione di Mara veniva attratta da un’insistente vibrazione proveniente dalla sua borsa.
“Sì – rispose riportando lo sguardo su Fabrizio – ci vado spesso in barca a vela perché è meno battuta dai turisti. Aspetta, ora che ci penso… qualcuno mi ha parlato di una grotta sommersa non distante dalla spiaggia ma non ci sono mai entrata. Non ho mai conosciuto nessuno che sapesse in quale punto si trovi”.
“La cosa si fa interessante”.
“Per me però si sta facendo tardi”, disse Mara guardando il suo polso sinistro.
“Mi hai parlato di promesse prima: cosa ti devo promettere?”, chiese Fabrizio.
“Tu? No, devo essermi espressa male e adesso è troppo tardi, o forse troppo presto”.
“C’è qualcosa che ti turba?”, insistette lui.
“A parte un cancro al cervello intendi?”
“Sì, a parte quello”, confermò Fabrizio.
Mara fece un sospiro che suonava come: “da dove comincio?”, poi decise per una sintesi: “Fino a cinque settimane fa, i miei problemi erano cambiare i parastrappi del motore della mia barca, cercare di fare capire a mia sorella, senza ferirla, che è fidanzata con un uomo che non farà mai un figlio con lei, e liberarmi di un collaboratore lavativo senza attirarmi addosso le ire del direttore generale dell’assessorato all’industria di cui il lavativo è amico”.
“È per questo che cerchi di ignorare il tuo insistente telefono?”, chiese Fabrizio alludendo alle spie luminose che si erano attivate di nuovo nello smartwatch di Mara collegato proprio al suo telefonino. Lei se lo levò senza guardare lo schermo e lo gettò dentro la borsa.
“A naso può essere una seccatura a caso fra il preventivo del meccanico ladro, mia sorella e le sue cure per la fertilità, il direttore suddetto che mi chiama perché oggi ho fatto un cazziatone coi fiocchi al suo amichetto”.
“Davvero? In realtà non ho difficoltà a immaginarti in versione dirigente malefica”.
“Hai presente l’elenco completo degli stereotipi sui dipendenti pubblici fannulloni e marca visita? Ecco la persona in questione li incarna tutti alla perfezione. Oggi l’ho beccato mentre faceva shopping online nell’orario di lavoro ma non è tanto questo ciò che mi ha dato fastidio. Il fatto è che lo faceva davanti a me, in modo spudorato: ha scelto colore e numero di scarpe mentre io parlavo con una collega al suo fianco e avevo piena visibilità sul suo monitor. Lo ha fatto per sfidarmi perché gli ho già cordialmente rimproverato mille volte la sua scarsa produttività”.
“Ma lui è amico del tuo capo”.
“E per di più ho già la nomea di rompiscatole perché lavoro, semplicemente perché faccio quello per cui vengo pagata cercando di meritarmi lo stipendio”.
“Avvilente, come quasi tutto abbia a che fare con la pubblica amministrazione, ne so qualcosa”.
“Vedi, io sono sempre stata abbastanza remissiva: facevo il mio lavoro e non badavo troppo all’assenteismo, al lassismo e all’incompetenza che mi circonda in assessorato. Ma stamattina mi sono detta: Mara, hai disarmato un trafficante di fucili e non puoi disarmare questo coglione dal sorriso ebete con il quale ti sfida ogni giorno?”
“E gli hai letto la vita”.
“Sì, ho iniziato dal suo titolo di studi e ho finito con gli strafalcioni che infila in una frase su due. Da ultimo gli ho detto pure che ha un pessimo gusto in fatto di calzature”.
“Da vera vendicatrice di cittadini offesi dalla Pubblica amministrazione”.
“Sì, ho tirato fuori il coraggio che non avevo mai avuto e temo che l’energia mi venga pure dal tumore. Perché vedi, ora le mie priorità sono ben diverse dal fare aggiustare il motore della barca, l’impossibile prole di Viola, e le piccole meschinità quotidiane in ufficio”.
“Ora tu devi sopravvivere”.
Mara si allarmò per quel verbo e Fabrizio si pentì all’istante di averlo usato.
“Come lo hai detto bene: hai inquadrato il fatto alla perfezione. Io devo sopravvivere, figuriamoci se ho il tempo per stronzate che non siano questioni di vita o di morte. Ma adesso andiamo e magari quando sarò stata trasferita all’assessorato ai punti neri del presidente della giunta torneremo qui a prenderci un altro aperitivo sotto una luna piena vera. Questa resta qui in esposizione per pochi giorni ancora”. Disse alzandosi e incamminandosi verso la cassa mentre Frank Sinatra ripeteva fly me to the moon.
“Ferma, non vorrai offrire tu”. La costrinse a sedersi di nuovo e andò pagare quei lunari aperitivi.
Mentre lui strisciava la sua carta di credito senza perderla di vista, Mara si alzò e andò sotto la sfera imitatrice di luna. Saldato il conto, la raggiunse ma lei non spostò lo sguardo dagli oceani del satellite. Ombre semoventi le si proiettavano sul viso che ora pareva sereno.
“Quando ti farai operare?”
“Shhh!”, sibilò portandosi l’indice alle labbra. “Le domande sono proibite sotto la luna”, e portò il dito dalle sue alle labbra di lui. Riflesso condizionato: lui lo baciò.
“Mara Margherita, fai incantesimi sotto la luna e io sono poliziotto, non Maestro”.
“Hai letto ‘Il Maestro e Margherita’? È uno dei miei libri preferiti: oh potrei amarti alla follia solo per questo”.
“Lo sto leggendo da almeno sei mesi ma sono ancora a metà. Mi amerai lo stesso?”
“No, ti amerò quando lo avrai finito. Del resto fra poco avrai un sacco di tempo libero e magari non terrai Bulgakov in attesa per altri sei mesi”, disse lei ridacchiando e incamminandosi verso l’uscita.
“Volubile come tutte le streghe. Dove hai parcheggiato, incantatrice?”
“Ho lasciato la mia turbo-scopa alla Capitaneria di porto. E tu?”
“Poco distante, in viale Colombo. Andiamo sarò il tuo cavalier servente”.
Camminarono in silenzio uno a fianco all’altra sino alla fine del viale alberato che ospitava la ex manifattura tabacchi. A quel punto gli si aprì dinnanzi la vista del porto e della via Roma illuminata. La attraversarono e si trovarono davanti alla fontana circolare che fronteggia il Palazzo del Consiglio Regionale ma una folata di vento scompose i giochi d’acqua bagnandoli e costringendoli a correre. Mara rise asciugandosi il viso e lui le porse un fazzoletto di carta.
“Che uomo premuroso sei”.
“Sei una donna che ispira premure”.
“Allora sorreggimi su questa discesa, ho timore che i miei tacchi provochino perdite di equilibrio”, disse prendendolo a braccetto. Lui la tenne stretta finché lei si allontanò. “Ora sono al sicuro”.
“Peccato, ci stavo prendendo gusto”, disse lui compiaciuto da quella sorta di tira e molla con il quale Mara mostrava di divertirsi più di lui.
Il mare era uno schermo lucido e nero ma affilato da rette luminose spezzettate dalle piccole onde del porto.
“Quando arrivo qui spero sempre di veder sbucare dal mare una pinna tursiope. Sai che ogni tanto i delfini entrano dai moli a pescare? Quando saltano fuori dall’acqua sono uno spettacolo”. E i loro occhi vagarono sul pelo scuro dell’acqua in cerca di dorsi cetacei che invece erano a caccia in mare aperto. Desistettero e ripresero il cammino verso il parcheggio.
“Hai detto che vivi in Sardegna da due anni?”
“Sì, sono a Cagliari dal maggio del 2017”.
“E non hai perso neanche un po’ di accento… vicentino, giusto?”
“Accidenti! È ancora così evidente? E pensare che mia nonna mi accusa di parlare ‘in sardo’ quando la chiamo da qui al telefono”.
“Relativismo fonetico. Qui non passeresti per sardo neanche se starnutissi travestito da mamuthone”.
“Infatti i colleghi dicono che parlo come una checca, anzi come dite voi caghineri”.
“Io non uso questi termini”. Fabrizio aveva notato un certo irrigidimento già alla parola “checca” e capì che Mara era sensibile all’argomento “omofobia” più della media delle persone da lui frequentate. Registrò l’informazione e le affibbiò all’istante l’etichetta di “radical chic” con conseguente appunto mentale di non intraprendere mai con lei alcuna discussione di carattere politico.
“Ecco la mia auto”, enunciò Mara.
“Opportunamente nel punto più buio di tutta la Capitaneria”.
“Devo avere paura?”
“Se hai timori chiama la polizia”.
Ma finiti gli scherzi restarono nudi di parole e con gli sguardi scoperti. I pensieri veri, quelli che li tormentavano, passarono tutti in rassegna sulle loro fronti e poi se ne andarono lasciando le bocche silenziose.
“Quanti anni hai?”, chiese Mara a bruciapelo.
“Trentacinque”, rispose lui accigliando lo sguardo a punto interrogativo.
“Accidenti, se non avessi tredici anni in meno di me ti bacerei.”
“Che donna antiquata sei Tamara Talana. E poi io me li porto male mentre tu ne dimostri almeno dieci di meno”.
“Quindi siamo quasi coetanei”.
“Quasi, e quasi quasi ti bacerei io ma non credo che la commissione che mi giudicherà approverebbe simili confidenze con una testimone. E poi i quattro morti annegati mi hanno acceso una lampadina nella testa e devo andare a controllare una cosa in commissariato”.
“Fammi sapere che luce fa quella lampadina. Sono curiosa”, disse Mara dissimulando la delusione mentre apriva la portiera dalla sua auto.
“E tu fammi sapere quando ti operano”.
“Lo saprai”, rispose entrando al posto di guida. All’improvviso aveva voglia di correre a casa a farsi un bagno e sparire sotto il pelo dell’acqua schiumata. Chiuse la portiera e mise in moto.
“Aspetta”, disse lui abbassandosi mentre lei faceva scorrere il finestrino.
“Ti rivedrò prima dell’intervento?”