Ho frequentato almeno quattro corsi di scrittura e narrazione e non ricordo più quanti manuali ho letto sulla materia. Ho iniziato presto, subito dopo la laurea, nel 1997, con il corso sicuramente più bello cui abbia preso parte. Si chiamava “Le parole di gomma”, era organizzato dalla Minimum fax e fra i suoi docenti annoverava un giovane Niccolò Ammaniti.
L’ultimo è stato un corso di narrazione di 5 giorni di Giulio Mozzi. In mezzo uno di sceneggiatura di Silvano Agosti (5 memorabili giorni che mi sono serviti a capire che la sceneggiatura non fa per me) e uno dal quale mi sono alzata per dire addio dopo mezzora.
Ma veniamo al perché del titolo di questo articolo: perché non si può andare a scuola per sempre anche se di imparare non si smette mai. Ci deve essere un momento in cui uno cessa di fare l’allievo e prova a mettere in pratica ciò che ha appreso. Io ho atteso a lungo prima di scrivere Tango in campo minato, che è il mio primo – e per il momento unico – libro. Ho aspettato finché non mi sono sentita pronta nonostante scrivessi per mestiere già da anni. Ma fare la giornalista è cosa ben diversa, come dimostra il fatto che esistano ottimi scrittori che sono pessimi giornalisti e viceversa.
Lo stampino
Una delle ultime revisioni che ho fatto al mio romanzo, l’ho eseguita con uno dei miei manuali in mano alla ricerca di avverbi da cancellare, metafore stantie da depennare e locuzioni trite come le proverbiali stagioni che non esistono più da fare evaporare. Insomma ho avuto bisogno di imparare tanto per sentirmi sicura e a tratti ancora non lo sono. Ma se non mollo chi mi dice come le cose devono essere fatte, non troverò mai il mio stile e uno dei problemi che ho riscontrato in questi corsi è che sono ripetitivi: tendono tutti a dire le stesse cose. Il che significa che rischiano di sfornare soldatini tutti uguali: tutti che scrivono come vogliono le divinità editrici. Invece a me non importa di produrre ciò che vuole un editore: io voglio scrivere come piace a me (cioè come scrivono gli autori che adoro) e, possibilmente, come piace ai lettori. Grazie al cielo ho un mestiere e il mio futuro non dipende dalla narrativa.
Editoria matrigna
Ai corsi che ho frequentato ho notato che c’erano degli affezionati, alcuni di questi proprio giornalisti. Persone che non perdevano nessuno dei corsi che capitavano in città: mostravano una forma di dipendenza e magari non avevano mai prodotto un libro. Oppure ne avevano scritto uno e si erano rivolti a un editore a pagamento.
In certi casi l’editoria mangia i suoi figli ma se si tratta di scrittori eterni esordienti non li divora, li mastica per anni e poi li sputa quando non hanno più succo. Io non voglio fare questa fine e ingrassare i tanti professionisti dell’editoria che vivono di persone che forse non hanno talento o forse sì ma in ogni caso finiscono per sviluppare assuefazione a scuole, docenti ed esercitazioni di scrittura.
Come propongo il manoscritto?
In tutti questi corsi c’è sempre una lezione: quella su come comportarsi con le loro maestà editori, agenti e affini per non suscitarne i malumori. Va bene imparare a scrivere una lettera di presentazione di un manoscritto, ma arrivare a consultare gli astri per sapere se il nostro interlocutore quel giorno sarà in buona oppure no, mi pare troppo. Il risultato è che gli aspirati autori si devono inginocchiare davanti alle divinità dell’editoria per pietire attenzioni. È anche per questo che ho scelto l’autopubblicazione.
Il circo equino
Il fatto è che c’è un circo di sciacalli pronto a sfruttare le persone come me, che mi fa venire la nausea. Gente che non ha nulla da insegnare e che è pronta a rapinare le tasche di chi insegue il sogno di vedere il proprio libro pubblicato. La cosa mi dà fastidio per quanto sappia riconoscere che ogni drogato incontra il proprio spacciatore.
Ebbene io non credo che frequenterò altri corsi di scrittura, almeno non per il momento. Di sicuro leggerò altri manuali e ripasserò quelli già letti ma deve arrivare il momento in cui si butta via il grembiule da scolaro. Per me è arrivato.